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“Questa gravidanza è arrivata per sbaglio, non ce ne siamo accorti”.
“È stato un errore, però poi siamo stati contenti”.
“Ma ti pare che lo abbiamo voluto?! Ne avevamo già 2, ci bastavano e avanzavano figurati se ci mettevamo a cercarne un altro”.
La narrazione con cui nasciamo, seppur sembri qualcosa di banale, può invece aver un’enorme influenza nella costruzione del nostro romanzo esistenziale e pertanto del modo in cui condurremo le nostre vite.
Ci sono invitati e invitati per questa festa che è la vita, per questa sala da ballo che è il mondo.
Alcuni arrivano con attesa e gioia, altri sembrano esser lanciati nella mischia in mezzo a gente che sta pogando (non so se si balli più in questo modo, ma quando ero adolescente io questo era uno dei modi, ci si spingeva ballando, in pratica una partita a rugby con della musica di sottofondo).
Arrivare in questo secondo modo, dà la sensazione a chi cresce dentro quel vestito di essere un incomodo, di aver preso qualcosa che non doveva, di aver rotto delle uova in un pollaio soltanto aprendo la porta, di dover sempre chiedere il permesso e nell’attesa costante di ricevere un’autorizzazione.
Certo che poi ci sono altri infiniti fattori che concorrono nella nostra vita per far di noi ciò che siamo e dei nostri figli ciò che sono e saranno, ma questo, seppur tra tanti, merita una particolare attenzione.
Proviamo a metterci nei panni di questi bambini, che arrivano apparentemente senza che nessuno li abbia chiamati, che si ritrovano con la responsabilità di aver cambiato piani a questa coppia di adulti, di aver infranto sogni, di aver costretto adulti ad abbandonare carriere da urlo, perlomeno questo è ciò che viene raccontato loro.
E se provassimo a cambiar la narrazione?
Se ci mettessimo nei panni di quel bambino cercando di leggere la storia dal suo punto di vista?
Credo profondamente che nel podio dei diritti ci debba essere quello alla propria storia, alla fedele, onesta e trasparente narrazione delle proprie origini e degli eventi che hanno accarezzato quell’esistenza.
Diritto che va di pari passo con il dovere degli adulti di onestà intellettuale ed emotiva, il dovere di non manipolare la realtà per volgerla a proprio favore.
Perchè dai, ammettiamolo, dire ad un figlio che è arrivato per sbaglio, che non sappiamo come possa essere accaduto, o storie simili è davvero un modo per svicolare dalla nostra responsabilità, ma quella di cui cerchiamo di scrollarci, inevitabilmente cadrà su di nostro figlio.
Proviamo a farlo questo sforzo, e a iniziare a raccontare la storia dal punto di vista del bambino, con la nostra assunzione di responsabilità in qualità di adulti.
Iniziamo a dire :”Quando sei arrivato ero molto distratto, mi spiace non essermi immediatamente accorto, ma che bello che ci sei”, oppure “Scusami se quando sei entrato a casa ero un attimo sotto la doccia e non ti ho sentito ma ora sono qui e sono pronto ad accoglierti ed ascoltarti”, o ancora “Sono stato poco attento e cauto ma che bello che tu sia arrivato”.
Cerchiamo di far sentire questo arrivo una gioia e una forma di gratitudine infinita, perchè come potrebbe un individuo condurre la propria vita sentendosi adeguato se già sente che il suo arrivo è avvenuto in condizioni di disagio?
Credo profondamente nel valore delle parole, il superpotere che a noi umani è stato concesso.
Usiamolo, con parsimonia e saggezza, con oculatezza e maturità, e quando lo usiamo rendiamoci conto che le parole modificano la realtà, la percezione del mondo e di noi stessi.
Un invito consapevole, presente e voluto è un enorme atto di amore che può cambiare completamente la percezione e l’esistenza di chi pensa di esser caduto per sbaglio dal cielo.
Gioiamo di queste vite che invitiamo a danzare, tendiamogli la mano e chiediamoglielo ora se ancora non lo abbiamo fatto, sia che i nostri figli abbiano 3 o 30 anni: “me lo concedi questo ballo?”.
Grazie Emily, i tuoi articoli risuonano sempre molto in me! Condivido tutto quello che hai scritto, A mio avviso noi adulti siamo troppo condizionati dal contesto socio economico nel quale ci troviamo: oggi avere un figlio significa mettere in pausa la propria vita sociale e lavorativa. Quanto è sbagliato questo…un genitore deve poter crescere anche lui in tutto ciò di cui ha bisogno, socialità, realizzazione lavorativa ed emotiva. Nessuno sa fare il genitore, ma è responsabilità di ognuno di noi di prendersi cura di sè per essere un buon compagno di viaggio per i propri figli e per le persone che incrociano il nostro cammino.
È proprio così Emily, è vero anche che le parole abbiano super poteri e dovremmo sempre essere artigiani di una parola che come un balsamo lenisce e cura e trascina azioni e condotte virtuose….come fai tu: immensamente grata!!!