illustrazione di Nazario Graziano

Statisticamente è molto difficile frequentare luoghi privi di bambini e dei loro genitori.

Sono ovunque, al supermercato, in fila alle poste, al forno, dal medico, addirittura dal meccanico.

Davvero non capisco come facciano a portarseli sempre dietro, dopo tutto quello che gli combinano quotidianamente, dopo l’estenuante lavoro di sopportare i loro comportamenti infantili e spesso ridicoli, fuori luogo e ingestibili.

Io mi vergognerei al posto loro.

Se io fossi una di loro, di certo ci penserei bene su come evitarli per sopravvivere, per raggiungere maggiore quiete e serenità. Tenterei costanti fughe per non esser costantemente scossa da grida, urla, richieste e pretese. Cercherei riparo da questo supplizio quotidiano.


Se io fossi un bambino, davvero penserei a come fuggire dai miei genitori, specie se fanno parte della categoria degli amanti dell’analisi grammaticale, quelli che alle elementari non capivano mai la faccenda degli aggettivi e allora a forza di studiarli, di esercitarcisi, di subire interrogazioni costanti ne hanno imparato a gestire così bene l’uso da averlo incorporato senza volerlo nel loro linguaggio quotidiano. Sottolineo senza volerlo, perchè dobbiamo lasciar loro il beneficio del dubbio che non sanno quello che stanno facendo, che non se ne rendono conto, perchè se fanno quel che fanno con consapevolezza allora c’è poco da ridere.

I genitori linguisti, hanno una tendenza a presentare il bambino ad amici ed estranei, sciorinando un aggettivo dietro l’altro che permetta di comprendere in maniera rapida, concisa, fedele e chiara a quale razza appartiene il bambino che abbiamo di fronte. Ci sono i purosangue tipo: il temibile agitato che non sta mai fermo, l’estenuante lagnoso e piagnucoloso che “si può sapere cosa vuoi ora? Mamma mia, con questo qui non so più cosa farci”, il classico ribelle recalcitrante ad ogni forma di autorità e regola imposta, il bravo-bravissimo-campione-luce dei mio occhi-vita mia che è il più bravo in tutto e fa fare un figurone a tutta la famiglia condonando le pene di 3 generazioni precedenti, il viziato che vuole tutto e per farlo star zitto bisogna comprargli tir di paperelle di gomme e gorilla gonfiabili. Poi ci sono i meticci: i tranquilli con tutti ma ti assicuro che a casa mi fa prendere un colpo, o i capricciosi per stanchezza, cioè quelli che se hanno sonno ti schiantano anima, senno e relazione di coppia.

E’ necessario, per il genitore linguista, metter subito le mani avanti, perchè sapete, lui è amante dell’italiano e non vorrebbe mai che qualcuno poco avvezzo all’utilizzo della lingua e della terminologia specifica in ambito infantile possa appioppare al pargoletto una definizione errata.

Lo fa con disinvoltura, di fronte al bambino, a volte accarezzandogli la nuca mentre lo descrive come un piccolo demone, un mostro selvaggio uscito dal ventre per farlo pentire di aver perso la verginità.

Si vede che è allenato, conosce i tempi teatrali per sortire nel pubblico reazioni di complicità, ha numerosi aneddoti da raccontare per rendere la faccenda più veritiera, ha testimoni da poter chiamare e un avvocato difensore che sta preparando l’arringa da quando le acque si sono rotte rovinando la tappezzeria della macchina appena ritirata.

Ma ora cari miei, mi sacrificherò, sfiderò i genitori linguisti, surferò sopra l’oceano di aggettivi che ogni giorno sgorgano dalle corde vocali di genitori in tutto il mondo per dire la mia, dalla parte dei bambini, vittime della grammatica.

“Cari miei, capisco il vostro impegno, il vostro tentativo di vincere un accesso d’onore all’accademia della crusca ma secondo me, non c’avete capito un benemerito ciuffolo di questi bambini e al massimo potete entrare all’asilo dell’avena. Quelli che chiamate lagnosi, viziati, pallosi, agitati, impegnativi, faticosi e snervanti bambini, non sono altro che fanciulli che stanno cercando in tutti i modi di lanciarvi un messaggio e solitamente è sempre lo stesso TU NON VEDI CIò CHE SONO, SICCOME NON MI SENTO ASCOLTATO TROVO UN MODO PER FARMI VEDERE MEGLIO. Un bambino che non si sente visto, che sente che su di se si sta costruendo un’immagine sbagliata, cercherà di farvi cambiare idea e lo proverà a fare in tutti i modi inizialmente, poi, siccome è bisognoso di cure, amore e presenza, si piegherà al vostro volere, al vostro “aggettivismo” e incarnerà ciò che avete detto che egli debba essere.

Un bambino è sempre il frutto di un ambiente psico-fisico che lo nutre, lo sposta, lo sostiene o lo fa affondare in caverne polverose.

Un bambino nasce cercando protezione e aspettandosi di trovare amore incondizionato, eppure da quando emette il primo respiro, gli aggettivi iniziano ad arrivare. E allora lui cerca di schivarli, di dribblarli, ma dove si gira qualcuno è pronto a lanciarli. Se non sono i genitori, sono i nonni, oppure le maestre, gli allenatori e le vecchine. Che se i vecchini controllano i lavori, le vecchine controllano voi madri, sappiatelo. Avrete sempre una donna anziana che vi guarda da qualche parte e se le offrirete il fianco, non mancherà di farvi notare che siete la vergogna della categoria col vostro modo di viziare il bambino. Invece di parcheggiare le anziane alle poste con l’aria condizionata o sui balconi, portatele davanti le altalene, vedrete che grinta che recupereranno. Sfideranno la gravità e l’artrosi per annunciare alla neo-mamma di turno che con 40 gradi un cappellino e un calzino fino al ginocchio ci vogliono, eh signora!.

Ma torniamo a cosa il bambino cerca: amore incondizionato, protezione, fiducia e accettazione. Se questa creatura inizia a sentire gli aggettivi è ovvio che gli girano un po’ gli zebedei, non ha fatto in tempo a fare un passo e già tutti sanno che tipo è. Non sa neanche come si chiama che intorno la folla ha già creato manifesti con 20 aggettivi che lo descrivono.

Pensate di spostare questo atteggiamento nella vostra vita lavorativa, dovreste convivere con frasi tipo: “si vede da come hai appoggiato lo zaino che sei uno svogliato, quello prima di te non era così, dove lo mettevi stava e mi faceva fare un figurone”, “siediti e ascolta mentre ti parlo, ma dove guardi?? A me devi guardare, che irrispettoso e maleducato che sei!”, “Come hai detto? Vorresti le ferie? Che viziato che sei, tutti così li fanno i dipendenti oggi, viziati, scansafatiche e irresponsabili. Io ti ho capito a te, riga dritto che sennò sono guai!”, “Salve, lui è Igor, il responsabile della comunicazione, è sempre agitato, si muove in continuazione sulla sedia e mi fa prendere un colpo. Stai fermo!!! Mio Dio voglio uno spritz”.

Penso che il più tranquillo di noi adulti dopo 1 mese così girerebbe con una katana a tagliare teste.

Invece i bambini no, loro continuano a tentare di manifestare il loro essere, nonostante il nostro terrorismo psichico.

Ma al di là del tono ironico, fate attenzione genitori linguisti, perchè nei primi anni di vita si gettano le basi della costruzione della propria identità, del proprio senso del sè, dell’intima capacità di ascolto e riconoscimento, dell’autostima e la capacità di costruire relazioni armoniose e positive con il mondo circostante.

Ma se io costruisco un’immagine fuorviante di me filtrata dai miei genitori, se li sento parlare di me come se non ci fossi, per di più giudicandomi, io perderei fiducia in loro, cioè in chi ne avrebbe dovuta avere in me. E’ facile attribuire poi le colpe agli adolescenti che sono smarriti e portano i vostri figli sulla cattiva strada, alla scuola che non ha fatto abbastanza, allo Stato che è solo un grande magna magna e non ci calcola a noi disperati cittadini. E’ tutto inutile e fiato sprecato, perchè le problematiche e le loro soluzioni, sono sempre da ricercare alla genesi, quando il bambino è nato, quando qualcuno ha iniziato a mettere distanze con la grammatica, quando invece di chiedere aiuto nel gestire un bambino che non si comprendeva si è data la colpa a lui.

Non siete dei cattivi genitori no, non siete sbagliati, siete solo un po’ troppo amanti degli aggettivi. Io vi consiglio di provare con le interiezioni per un po’. Per darvi il la vi faccio un paio di esempi che poi lo so che siete creativi e ne trovate altri 100. Quando presentate vostro figlio, invece di dire “lui è Matteo, è un vichingo travestito da puttino” provate a dire :”Lui è Matteo, olè!”, oppure invece di dire “lei è Greta, la mia prediletta, è la prima della classe e della fila per il bagno”, potete dire : “Corbezzoli! E’ un vero piacere farvi conoscere mia figlia Greta”.

E se questo non bastasse, vi giuro che armerò un esercito di vecchiette, le arruolerò per la patria, faremo loro corsi di pedagogia, di autobiografia, di psicologia e di grammatica, ovvio.

Le addestreremo per trovarvi, scovarvi cari genitori “aggettivisti” e farvi dire davanti ai vostri figli che siete veramente noiosi, pallosi, eccessivi, giudicanti ed estenuanti con questi vostri aggettivi e che potete farci una coperta all’uncinetto invece di stressarci a tutti con le vostre lamentele.”

Dai, che ce la potete fare!!

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2 thoughts

  1. Bellissima e stimolante riflessione. È vero gli aggettivi non fanno altro che etichettare un bambino, costruendogli intorno un pregiudizio non costruttivo. Grazie

  2. Mi sembra simile alla teorie dell’etichettamento. Mi sono proprio imposta di cercare di usare il meno possibile etichette che potessero vincolare e imprigionare mia figlia ma mi sa che ogni tanto un ‘Energica/Vivace/Agitata’ mi scappa. Ma più che un rimprovero a lei è la constatazione del fatto che non riesco a starle dietro. (E infatti la porto spesso al parco per farla correre).
    Muoversi, scoprire, correre, interagire è una sua esigenza. Sono io che devo trovare gli strumenti per starle dietro.

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