illustrazione: Marie Bretin

Quando nasce un bambino, alcuni accessori fanno già parte del suo corredo da mesi, troneggiando nelle camerette ancora vuote in attesa di essere utilizzati.

Tra questi, quello più famoso e longevo è senza dubbio il ciuccio.

A lui i negozi di articoli per bambini, dedicano pareti intere, ne esistono di ogni colore e forma. Ci sono quelli griffati e quelli da cerimonia.

A lui sono dedicati albi illustrati e ogni bambola che si rispetti ne possiede uno.

Svariate sono le teorie sulle migliori modalità educative da mettere in campo per quando si deciderà di eliminarlo.

Ma la domanda è: “perché diavolo lo rifilate ai vostri bimbi?”.

Ora togliamo il caso dei bambini che per varie ragioni devono passare del tempo in incubatrice o devono trascorrere periodi distanti dalla madre per cui hanno necessità di un sostituto. Ma per tutti gli altri, che una mamma ce l’hanno, perché il ciuccio viene dato?

Se la risposta si avvicina a “perchè così non piange”, o “così si abitua a stare anche senza di me”, potreste essere di fronte ad un possibile pericolo ed ora proverò a spiegarvi il motivo.

Il pianto di un bambino è sempre una comunicazione, piangendo ci indica che ha fame, ha sonno, ha freddo, ha bisogno di attenzioni, sta scomodo, vorrebbe un doppio latte con ghiaccio o le urla che sente attorno lo stanno stressando.

Ogni qual volta ad una sua manifestazione comunicativa viene ficcato un ciuccio in bocca, l’episodio equivale a mettere sempre una penna in bocca ad un alunno che alza la mano.

Ossia: “non importa quale sia il tuo bisogno, non occorre ascoltarlo, tanto la risposta è sempre la stessa e non sarà quella che tu ti aspetti, tanto vale abituarti subito cocco mio”.

Ovvio, questa frase non è il pensiero cosciente di un genitore che utilizza il ciuccio, ma è esattamente ciò che arriva ad un bambino.
Il meccanismo che ne consegue è quello tipico del comportamentismo, esempio emblematico ne è l’esperimento di Pavlov e del cane a cui ogni volta veniva dato del cibo l’evento veniva accompagnato dal suono di una campanella, dopo un po’ bastava suonarla per far sbavare il cane.
Al bambino capita la stessa cosa, l’associazione che il bambino compie è che ogni qual volta percepisce un bisogno, oppure ha una comunicazione o vive una frustrazione, questa verrà dissipata dal ciuccio. Strumento per eccellenza di gestione emotiva.

Ma cari lettori, se in educazione vige una regola, questa è: ogni qual volta ti sembra di aver trovato una scorciatoia, preparati perchè potrebbe tornarti indietro come un boomerang e metterti di fronte a sfide ben più ardue successivamente.

EFFETTO BOOMERANG 1: I bambini nei primi due anni di vita in particolar modo, durante la fase di costruzione affettiva con le figure di riferimento (attaccamento che condizionerà tutte le loro relazioni future) hanno necessità di ricevere costantemente risposte efficaci alle loro richieste in modo da edificare una visione del mondo di stabilità emotiva. In poche parole, il bambino costruisce un’idea di mondo, e di se stesso in relazione a questo, sulla base delle risposte alle sue domande. Io piango+ il mondo risponde= attaccamento sicuro, divento consapevole delle mie emozioni, mi fido degli altri, ho una base affettiva stabile. Al contrario: io piango+il mondo non risponde (o mi ficca un ciuccio in bocca)= attaccamento insicuro, non riesco a comprendere cosa mi sta accadendo interiormente, non sono certo di potermi fidare di chi ho attorno, il mondo non è un luogo sicuro a cui poter affidare le mie emozioni.

Il problema maggiore è che il bambino impara a conoscersi sulla base dello specchio che il mondo gli offre.
Se piango perchè ho bisogno di contatto e qualcuno mi prende dicendomi “avevi bisogno di un abbraccio piccolo?”, io inizio ad associare un nome a ciò che mi accade dentro. Se invece piango e mi viene dato un ciuccio come unica soluzione è come se lo specchio fosse stato oscurato lasciandomi in balia delle mie emozioni incapace di comprenderle.

EFFETTO BOOMERANG 2: direttamente collegato al discorso dello specchio, si collega il secondo effetto nocivo del ciuccio. La mancata associazione verbale alle emozioni e bisogni avvertiti conduce ad una fragilità psichica e ad una incapacità di far fronte alla gestione efficace delle proprie emozioni.
Ossia, quando ho delle forti emozioni che mi scuotono potrei cercare compensazione all’esterno e non comprensione dentro di me, esattamente come mi è stato diligentemente insegnato, a livello inconscio e profondo, attraverso il ciuccio. Potrei utilizzare lo shopping, il fumo, il lamento, il cibo, il silenzio, come strategie di gestione emotiva, perchè sono quelle che più si avvicinano al modello trasmessomi: ogni volta che hai un problema od una tensione emotiva cerca all’esterno qualcosa che ti distragga e ti faccia scaricare la tensione. Ovviamente questo sistema è fallimentare perchè allontana il bambino e quindi l’adulto, dalla consapevolezza del proprio mondo interiore, dai propri processi psichici e dalla competenza emotiva, che consiste anzitutto nel riconoscere cosa sta accadendo interiormente.

Arrivati fino a qui, siete ancora sicuri di voler adottare il ciuccio? Che poi lo sapete, si perde di continuo, vi tocca ciucciarlo nell’illusione di sterilizzarlo ad ogni caduta, i bambini lo rifiutano quando sono piccoli e occorre cacciarglielo letteralmente in bocca e poi per toglierglielo dovete arrampicarvi sugli specchi con storie strampalate e convincimenti vari.

E per tornare alle domanda e risposte iniziali da cui tutti ha avuto inizio (Perchè gli avete dato il ciuccio? “perchè così non piange”/ “così si abitua a stare anche senza di me”), vi svelo un trucco..
Il miglior modo per assicurarvi che il bambino sarà in grado di stare anche senza voi serenamente e non piangere costantemente, il miglior modo per trasmettergli fiducia in se stesso e nel mondo, è solo uno ed anche molto semplice: l’ascolto!
L’ascolto è ciò che eleva un bambino, ciò che lo fa crescere, ciò che gli permette di acquisire consapevolezza, fiducia in se stesso e percepirvi come una base sicura.
Ascoltateli i loro pianti, non metteteli a tacere, accoglieteli come fossero dei canti, accompagnateli verso una profonda comprensione di cosa nascondono, verso il meraviglioso cammino di traduzione emotiva.

Ascoltateli e ascolterete voi stessi.

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3 thoughts

  1. Gentile Emily, mi piacciono le sue riflessioni e le leggo sempre con molto piacere. In questo articolo ciò che scrive è molto corretto e lo condivido, però nella sua casistica non ha tenuto conto di una variabile che è successa a noi. Quando è nata nostra figlia non aveva nemmeno un ciuccio perchè avevamo deciso di non darglielo, per tutte le ragioni da lei citate. Solo che, per una serie di circostanze non fortuite, nostra figlia è stata estratta con una piccola ventosa. Questa ha causato fastidiosi problemi da trattare da una osteopata infantile fin da subito. E proprio questa specialista ci ha consigliato di darle il ciuccio per aiutarla a scaricare le tensioni della testa e della mandibola. Che fare? Non abbiamo avuto scelta e poi ci siamo trascinati il ciuccio fino ai tre anni inoltrati, fino a quando è riuscita a lasciarlo andare. Nella mia esperienza c’erano una serie di “regole” che avrei voluto seguire, ma poi l’esistenza mi ha portato (a volte con mio grande dispiacere) da un’altra parte. E se è successo, vuol dire che era perfetto così. Solo per dirle che nella mia esperienza le regole generali valgono sempre fino ad un certo punto. Ogni bambino è un essere unico con il suo karma e la sua storia e facciamo il meglio che possiamo consapevolmente momento per momento.
    Un caro saluto Laura

  2. Cara Laura e cara Emily,
    nella mia esperienza qualunque oggetto in sé è “neutro”, non è buono o cattivo a priori.
    Poi l’esperienza, la storia e la consapevolezza di ciascuno, lo intingono del colore unico che solo indagando il mistero di ciò che siamo o non siamo può svelarci qualcosa di noi stessi.
    Non esiste una verità preconfezionata su nessun oggetto, o esperienza, o vissuto. Quello che invece esiste sono i nostri pregiudizi (o giudizi) su un determinato oggetto o esperienza, ecc., che si sono cristallizzati in determinate circostanze e ci hanno chiuso un po’ il cuore, non permettendoci di restare in contatto con la vitalità e l’unicità e irripetibilità di ogni momento e di ogni esperienza.
    Nella mia di esperienza ho visto situazioni in cui il ciuccio non è stato dato, ma ciò non ha coinciso con una presenza e un ascolto emotivo e, casi in cui è stato proposto al bambino insieme ad una sincera presenza e ad un sincero ascolto emotivo. Insomma, il detto “non facciamo di tutta l’erba un fascio” forse qui calza a pennello.
    Non conosco la storia e i motivi che hanno spinto Emily a scrivere questo articolo e, sono sicura, siano pieni di significato. D’altra parte è possibile trarre spunto da quanto scrive, domandosi sinceramente: “sto usando il ciuccio come distrazione emotiva per non restare in ascolto delle emozioni che sta vivendo mio figlio o mia figlia?”. A me almeno pare un’ottima domanda da porsi e anche, più in generale: “perché sto proponendo il ciuccio a mio figlio o figlia?”. Certo la sincerità e profondità della risposta dipenderà dalla maturità di ciascuno, è inevitabile, ma allo stesso tempo, iniziare a porsi la domanda può essere d’aiuto per una maggiore sincerità con sé stessi. Quindi grazie. Michela

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